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La felicità in azienda



Tutti cerchiamo un lavoro. Quando lo otteniamo ci sentiamo un po’ come di aver vinto un terno al lotto. Sembra un po’ la storia di certi matrimoni. Dopo alcune settimane, mesi, anni, quella felicità inizia a sbiadirsi e talvolta, per alcuni di noi, la relazione idilliaca si trasforma in una sorta di routine noiosa, senza infamia e senza lode. Per alcuni un dovere in vista della gratificazione nel giorno dello stipendio o delle ferie, per altri una via crucis. Solo per pochissimi eletti una gioia nutrita e coltivata di giorno in giorno, a suon di idee, passione, progetti portati a termine con successo, ostacoli superati in team e tanto altro.


L’essere umano medio sopravvive alla fatica di dover mantenere un posto di lavoro perché spesso sente che l’azienda in cui è stato assunto non è il luogo in cui poter esprimere i suoi talenti, se pensa di averne.


E ancora più spesso perché non va d’accordo con i suoi colleghi.

E questo è il grande nodo da affrontare per l’umanità così organizzata.


Effetti del “mal-essere”: riccio o volpe?

Se l’essere umano singolarmente preso non è felice, l’azienda, anch’esso organismo pulsante e vitale in quanto composta a sua volta da essere umani, ne risente. In che termini? Difficile da far comprendere a chi si occupa di risorse umane. La leva non può essere che la solita: quella economica. Come è giusto che sia.


Ma non è forse riduttivo continuare a ribadire che un dipendente felice si ammala di meno o è meno assenteista; è affidabile e collaborativo e non ci lascia per andare a lavorare dalla concorrenza, obbligandoci a puntare su un nuovo investimento?


Dal nostro punto di vista sì. Stiamo affrontando la questione dalla prospettiva del riccio focalizzandoci sulla scampata perdita piuttosto che sull’enorme potenziale sperperato (il mancato guadagno o la volpe).


Se una perdita è facilmente quantificabile perché è ripetibile e prevedibile nella sua eventualità, il mancato guadagno derivante dal non uso del pieno potenziale degli individui è praticamente un concetto infinito, inesplorato per definizione e assolutamente privo di limiti.


Ma cosa significa “sviluppare il potenziale”?

In primis significa sviluppo dell’essere umano”. Se la parola più usata di questi tempi è “competenza”, si potrebbe parlare di una “Competenza a Essere”, come unica modalità in cui poter essere creativi, liberi da schemi ripetitivi e reattivi che ci tengono imprigionati in una sorta di gabbia invisibile.


Un concetto molto fumoso e quasi abusato in certi ambiti in cui “essere” viene contrapposto al vituperato “fare”. Ma “essere” è la madre di tutte quelle competenze che consentono agli individui di affrontare le sfide come tali, in un “andare verso” una conquista piuttosto che un “difendersi da” qualcosa percepito perennemente come un ostacolo o un problema da cui fuggire.


L’atteggiamento di un individuo nei confronti della vita ha poco a che vedere con le sue abilità tecniche poiché lo sviluppo del potenziale è in ultima analisi un lavoro di consapevolezza e di integrazione del sé, ovvero


La conquista di un equilibrio mentale

Essere mentalmente equilibrati significa ampliare la nostra visione della realtà, superando la rigidità e i limiti legati al giudizio implacabile su noi stessi e sul prossimo, all’interpretazione semplicistica degli eventi e alla classificazione intesa come anticamera del pre giudizio. A quell’atteggiamento di chiusura che non ci consente di relazionarci costruttivamente con la diversità.


L’altro ci fa da specchio e quello che non tolleriamo in lui è spesso qualcosa che non accettiamo in noi stessi. Non parliamo di praticare la “tolleranza”, intesa come sopportazione di chi appare più limitato ai nostri occhi, ma come comprensione profonda di uno stato o stadio “evolutivo” diverso per ogni essere umano, ma pur sempre impegnato come noi in uno stesso cammino di consapevolezza chiamato “vita”.


Finché avremo bisogno di attaccare o di difenderci dal prossimo, senza mai stare in una relazione in cui io sono OK e tu sei OK, per dirla alla Berne (ideatore dell’analisi transazionale degli stati dell’Io), non potrà esserci felicità o quanto meno serenità.


Effetto domino

E senza serenità e fiducia non si potrà mai tendere verso nuove conquiste. Conquiste di idee, progetti, soluzioni da affrontare in team in un’atmosfera di gioco.


La dove il “fare” non viene dalla razionalità, ma dalla stimolazione reciproca di neuroni in connessione a formare un “UNO”, in cui il gruppo è molto di più dei singoli individui che lo compongono (Gestalt). Come un grosso calderone di esperienze e intuizioni che si stimolano vicendevolmente a ruota libera fino ad arrivare all’effetto domino o, se volete, alla potenza di una fissione nucleare.


Il ruolo del Direttore del Personale

Ed è per questo che le risorse umane impongono una cautela superiore e una saggezza estrema da parte di chi ne ha la responsabilità. E ciò in ogni fase del processo: dalla selezione e recruiting, fino a tutti gli altri aspetti di gestione, motivazione e sviluppo.


Come è stato giustamente sottolineato durante l’ultima conferenza sui risultati della ricerca CRANET 2015, chi gestisce risorse umane non è più, o almeno non solo, colui che si occupa di relazioni sindacali, ma è una persona di formazione preferibilmente umanista (come avviene maggiormente in Europa) che ha un coinvolgimento a pieno titolo nella pianificazione strategica dell’azienda. Una visione a 360 gradi che gli consenta un’azione mirata sulle risorse umane intese come “pancia” dell’azienda, in contrapposizione all’azione sui talenti: punte di diamante su cui focalizzare l’attenzione in maniera esclusiva e talvolta controproducente per l’organizzazione.


Si parla giustamente di una di una “competenza organizzativa diffusa” che deve pervadere non solo i responsabili delle Risorse Umane, ma deve necessariamente essere dispiegata a cascata su tutti i componenti dell’organizzazione. Perché niente è più prevedibile o affrontabile con il nozionismo e i tecnicismi trasferiti dall’alto. Tutto cambia e l’unica chance che le organizzazioni hanno è quella di agire a monte, sviluppando le potenzialità insite in ogni essere umano di affrontare in modo efficace e originale nuove sfide.


Sviluppo del potenziale in pratica

E allora ben venga tutto ciò che può essere considerato “sviluppo del potenziale”: dalla formazione classica sulla comunicazione ai giochi di ruolo, le attività di team building, il counselling e il coaching ecc.


Ma anche attività più di rottura rispetto alla tradizione aziendale: Yoga, Tai Chi Chuan, teatro, trattamenti shiatsu, arte terapia, tango, tecniche di rilassamento e quant’altro, ancora considerate un tabù per le aziende italiane.


Qualunque attività che metta in comunicazione “simbolica” un individuo con se stesso o con un suo collega, non è altro che una rivelazione su di sé che apre nuove prospettive di atteggiamenti, contrapposte alla reattività degli automatismi di giudizio, rifiuto, rabbia o qualsiasi altra emozione che imprigioni la nostra naturale tendenza a “creare”, nel senso di “andare verso”.


La cosa veramente importante è che sia una formazione “esperienziale”, in cui ognuno si possa mettere in gioco, e non un indottrinamento accademico calato dall’alto. Perché se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco (Confucio).


E per andare ancora “oltre”

E’ risaputo che sono sempre di più le organizzazioni al top che hanno introdotto la meditazione in azienda, sulla scia dell’exploit di Apple il cui fondatore era un buddista zen.


Nike, Procter&Gamble, AOL Time Warner, Google, Deutsche Bank e tante altre…


I benefici? Li conosciamo ormai tutti: migliore gestione dello stress, delle relazioni personali, maggiore chiarezza mentale, capacità mnemoniche e di concentrazione, ampliamento delle capacità di problem solving e sviluppo del pensiero laterale, maggiore creatività e propositività, maggiore benessere psico-fisico in senso lato con una percezione positiva del mondo e delle sfide/opportunità sul nostro cammino…


Insomma, l’elenco potrebbe andare avanti a oltranza. Ma ciò che è importante far sapere alle aziende è il tornaconto economico di questo tempo investito nel “non fare” che equivale a ”essere”.


E i risultati di tutto questo?

Immediatamente visibili a tutti senza complicate analisi economiche. Basta vedere le quote di mercato delle aziende sopracitate. Ma andando più nel cuore di questo effetto macroscopico, si intuisce che l’allineamento degli obiettivi economici dell’azienda con quelli di motivazione del dipendente è praticamente automatico.


Sono in realtà due facce della stessa medaglia che iniziano a viaggiare all’unisono smussando tutti gli attriti, discrasie e rallentamenti ad una crescita etica e “biosostenibile” a cui tutte le aziende e i gruppi organizzati dovrebbero tendere.


Effetti prorompenti in termini di gradevolezza degli ambienti di lavoro, creatività e tasso di innovazione e, in ultima analisi, di prosperità dell’azienda con effetti a cascata sui suoi componenti, sul territorio di riferimento e sulla società in genere.


E prosperità è solo l’effetto collaterale della felicità.


Senza neanche rendersene conto, l’azienda ha così dato un contributo importante alla costruzione di un mondo migliore, ricavandone in cambio un tornaconto economico di gran lunga superiore all’investimento richiesto.


Pensiamo a quante ore un dipendente può stare in un ufficio senza produrre niente, in preda alla demotivazione e alla confusione. Capita spesso.


Per dirla in termini matematici, investendo mezz’ora del tempo lavorativo di un dipendente per dedicarsi alla “riconnessione” con il suo Essere attraverso una meditazione, l’organizzazione nel suo complesso ne ricava in breve tempo un R.O.I. (Return on Investment), in termini %, tendente a +∞. Vale la pena provare?

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