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Lo spazio e l'ambiente di lavoro



Se vogliamo ridefinire il concetto di spazio lavorativo e gestione del tempo per produrre meglio e di più, può essere molto utile soffermarci su tale relazione attraverso un piccolo excursus storico, che parte dallo studio pioniere in questo campo: quello del 1927 alla fabbrica di Hawthorn.


I sociologi Elton Mayo e Fritz J. Roethlisberger effettuarono una ricerca su una possibile relazione tra ambiente di lavoro e produttività dei lavoratori presso lo stabilimento della General Electric di Hawthorne, Chicago


I risultati mostrarono che la produttività è strettamente legata all‘ATTEGGIAMENTO nei confronti del lavoro. Inoltre, la possibilità di comunicare all'altro i propri sentimenti e la possibilità di essere ascoltati e compresi erano fondamentali ai fini della produttività e della crescita della MOTIVAZIONE nel lavoro.


I ricercatori si resero conto che le dattilografe e le operaie della fabbrica producevano di più non per le variazioni apportate alle condizioni di lavoro (illuminazione, durata delle pause e delle giornate lavorative, retribuzione ecc..) ma perché si rendevano conto di essere oggetto di attenzione:


A far cambiare i livelli di produttività erano fattori di ordine PSICOLOGICO e non sociologico.


I contenuti del lavoro ieri e oggi

In buona sostanza lo studio ha rimarcato l’importanza di un bisogno fondamentale dell’uomo che è stato il leit motiv nell’evoluzione della gestione delle risorse umane dell’ultimo secolo, con tutta una serie di implicazioni ad esso collegato.


Il messaggio sembrava essere: non importa lo spazio, ovvero la parte hard, quanto piuttosto la relazione, ovvero il bisogno di riconoscimento da parte del sistema in cui si è inseriti.


Ma se guardiamo alle richieste che venivano fatte al dipendente del secolo scorso, ci rendiamo conto che il tipo di rapporto era sempre di tipo gerarchico. In buona sintesi veniva chiesto al lavoratore di essere un buon esecutore di quanto organizzato strategicamente, tecnicamente e logisticamente dall’alto.


La mamma azienda guidava e il figlio dipendente obbediva in virtù del salario che veniva corrisposto.


Nella famosa piramide di Maslow i bisogni che si perseguivano in tali contesti erano maggiormente collocati sulla base: bisogni di sicurezza e di appartenenza, nel senso di riconoscimento del proprio valore.


Se guardiamo una job description di oggi, persino il lavoro che in passato poteva sembrare meno qualificato assume ora una connotazione manageriale: a tutti noi vengono richieste doti di autonomia, indipendenza, intraprendenza, creatività, capacità di problem solving, capacità di lavorare in team, doti relazionali, ecc. Quando va bene, non ci vengono richieste doti di leadership.


Il salto fatto nella piramide di Maslow si è spinto al vertice, a legittimi bisogni di autorealizzazione in organizzazioni complesse.


Ovvio che il ribaltamento di prospettiva sia il risultato di quel salto quantico fatto dalla tecnologia nel giro di pochi decenni in quel secolo, con tutta la serie di conseguenze sull’essere umano che è comunque ancora figlio di quel retaggio culturale, ma al quale viene richiesto di “crescere” rapidamente, di fare la sua parte responsabilmente in azienda anche quando non è psichicamente pronto per questo.


L’azienda si è fatta carico di accompagnare i suoi collaboratori in questo percorso di crescita, ma le richieste imposte da questo dinamismo sfrenato sono veramente pressanti. Quindi è gioco-forza che il sostegno allo sviluppo si sia naturalmente direzionato su tutti i fronti possibili e immaginabili.


Se l’accento è posto soprattutto su aspetti soft, quali ad esempio quelli comunicativi e relazionali, ultimamente emerge l’importanza di concepire una cornice ambientale, in senso di spazi lavorativi, in cui tale processo di accompagnamento si colloca e si dispiega fisicamente.


Le conseguenze sull’essere psico-somatico

Le pressioni di cui abbiamo parlato impongono un allenamento all’autocontrollo su vari fronti: gestire i propri confini dalle richieste esterne, stabilire priorità di lavoro gestendo il tempo efficacemente, raggiungere obiettivi di performance, affrontare imprevisti, padroneggiare emotivamente situazioni di confronto dialettico, gestire in ambito professionale i vissuti stressanti provenienti dalla vita extra-lavorativa, e molto altro.


Tutto questo lavoro di tipo mentale e emotivo in un ambiente altamente dinamico e quindi imprevedibile, rappresenta simbolicamente ciò che per il primate era la lotta per la sopravvivenza nell’ambiente sconosciuto. Le reazioni di attacco o fuga sono indotte da forme di minaccia più invisibili rispetto ad una tigre o un leone e, in quanto tali, più subdole. Ma le implicazioni fisiologiche a livello di attivazione del sistema nervoso autonomo (simpatico) sono le stesse. Con l’aggravante che lo stress così concepito, silente e persistente, impedisce spesso una piena compensazione dal parte del sistema para-simpatico, facendo rimanere i livelli di allerta elevati con tutte le implicazioni fisiche connesse a tale stato. Insomma, siamo un po’ al concetto metaforico della rana che, immersa nell’acqua che si riscalda gradatamente, non si rende conto del processo in atto e si ritrova “bollita” senza esserne resa conto.


Si parla così di stress lavoro-correlato, senza contare l’aggravante sinergico dello stress urbano e di quelli personali a cui possiamo essere esposti più o meno periodicamente.


Sappiamo che tale stato può indurre blocchi energetici e tensioni psico-fisiche. Ma, ciò che più conta, è l’impossibilità di accedere alle risorse creative che ognuno di noi possiede naturalmente, per affrontare le sfide di ogni giorno, in termini di problem solving, concentrazione, lucidità e relazioni proficue. Paradossalmente, le preoccupazioni ci limitano fortemente nella possibilità di farne un uso efficiente, proprio quando ne avremmo più bisogno.


Come fare per combattere lo stress psico-fisico-relazionale?

Il segreto sta nel trovare degli spazi per rigenerarci e centrarci proprio nei momenti in cui tali risorse sembrano venire meno. Ma per arrivare a tale condizione è necessario un lavoro preliminare di allenamento attraverso tecniche integrate e di varia natura, secondo le personali predisposizioni.


Le tecniche di integrazione mente-corpo consentono di entrare in contatto con i nostri vissuti corporei, conoscerli e prenderne possesso per gestire autonomamente e consapevolmente la propria “macchina biologica”. Quindi attività quali lo Yoga, il Tai-Chi-Chuan, le tecniche di rilassamento (Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson, Training Autogeno) saranno fondamentali in questa direzione e, in quanto attività di gruppo continuative costituiscono dei veri e propri team-building permanenti.


Lo stesso dicasi per la meditazione di gruppo, le attività artistiche, quelle di espressione corporea quali la biodanza, il canto, la drammatizzazione eccetera.


I massaggi in ufficio daranno sollievo immediato alle tensioni accumulate.


Mentre attività di relazione con un Counsellor o un Coach aziendale consentiranno un’apertura di vedute su problemi specifici.


Sessioni di informazione sulla propria salute in generale (nutrizione, postura, respirazione, problemi medici specifici, eccetera) rappresenteranno un valido aiuto nella direzione della presa di responsabilità su questi temi a livello di prevenzione.


Senza dimenticare che tale benessere così ritrovato o mantenuto ha riflessi a livello comportamentale, in virtù del famoso concetto di unità psico-fisica dell’essere umano.


Da qui si evince il motivo per cui l’azienda dovrebbe sostenere questo meccanismo virtuoso: una mente rilassata è una mente creativa, in un corpo in salute. Un individuo in tale stato è altamente motivato nella sua autorealizzazione sul lavoro (e non solo). E’ produttivo e creativo e, soprattutto, ha comportamenti e relazioni altamente positive, innescando reazioni catena per comporre il famoso “ambiente di lavoro armonioso, creativo e cooperativo” che è l’aspirazione di tutti noi.


In buona sintesi, crescita e prosperità per un’azienda che coltiva le sue risorse umane in quest’ottica.


Spazi in azienda per fare cosa?

Eccoci arrivati alla domanda clue. La risposta è: spazi dedicati per fare tutto quanto sopra esposto. Spazi di cui le persone sentono naturalmente il bisogno. Monica racconta di essersi organizzata con un’amica per dipingere durante la pausa pranzo. Cercano una sala riunioni libera in cui ritrovare un contatto con la propria parte creativa e rigenerarsi, “...fino a che non ci butteranno fuori…”.


E ancora: “Un mio collega si è costruito di sua iniziativa, in un angolo dell’open space, un piccolo giardino Zen con la fontanella su un quadrato di prato sintetico comprato da Ikea…”.


Marzia ha seguito un corso di Training Autogeno per gestire l’ansia e lo stress lavorativo (al di fuori dell’azienda). Racconta: “ho provato ad applicare la tecnica alla mia scrivania dopo una telefonata di lavoro molto concitata che mi aveva fatto arrabbiare. La tecnica ha funzionato bene sin dall’inizio, ma non sono riuscita a portare a termine la sessione a causa delle interruzioni che sono sopraggiunte presto…”.


“Chill out area” e “Rebalancing room” sono le risposte aziendali più moderne a tali bisogni, ma anche stanze raccolte e insonorizzate per accogliere una meditazione individuale, le sedute di counselling e di coaching, l’office massage e quant’altro si possa immaginare tra le tante tecniche naturali a disposizione.


Qui la creatività dell’arredatore può veramente sbizzarrirsi. Dalle suggestioni mediorientali da Spa a quelle più fredde e essenziali delle culture nordiche o giapponesi.


Contenitori di benessere da arredare secondo il gusto e il carattere dell’azienda.


Ma l’importante è che ci sia o che, quantomeno, si possa ricavare da spazi aziendali concepiti in modo versatile, come una grande sala conference per le attività di gruppo o piccole sale meeting per il raccoglimento, i massaggi o per i colloqui di counselling. In tal caso, una rigorosa gestione delle tempistiche delle attività e del cartello “Do not disturb” è d’obbligo.

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