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Formazione e Consulenza Organizzativa: i limiti del silos



Nonostante la visione sistemica delle organizzazioni abbia ormai preso piede da molti anni negli ambienti aziendali, la struttura dei servizi alle aziende pone spesso dei grossi limiti alla sua applicazione effettiva.

Mi spiego meglio:





Ad ognuno il suo lavoro

Se penso che il personale abbia bisogno di formazione, mi rivolgo ad una società di formazione, lavorando squisitamente sulla variabile organizzativa “Risorse Umane”. Mentre quando penso ci sia bisogno di una ristrutturazione aziendale mi rivolgo ad una società di consulenza organizzativa.

A mano a mano che si verificano eventi destabilizzanti per l’azienda, del tipo fusioni, cessioni, cambiamenti ai vertici, crisi di mercato con esuberi di personale o quant’altro si possa verificare nell’inquieto panorama socio-economico in cui ogni azienda è immersa, ciascuna delle sfaccettature del problema diventa materia di uno “specialista”. L’ipotesi alla base di questa gestione del cambiamento è che i vertici aziendali siano in grado di tenere le fila del discorso e coordinare il cambiamento in modo armonico attraverso la gestione dei suoi fornitori secondo un pattern “a stella”, in cui ogni fornitore poco conosce di ciò che fanno gli altri e gli interventi patiscono spesso il limite della frammentazione.

Non che i vertici aziendali non siano in grado di coordinare gli aspetti sistemici dell’organizzazione. Tutt’altro. Nessuno meglio di loro conosce l’azienda ed un intervento a 360° non può prescindere dal loro contributo e potere decisionale.

L’unico limite di questo approccio è rappresentato dal fatto di essere “parte” del sistema in cui si interviene e, in quanto tale, impossibilitato ad una visione esterna - e quindi più nitida - delle dinamiche che si sviluppano intorno ad essi.

La variabile “Risorse umane”: aspetti espliciti e latenti

In particolare, l’elemento umano è quello più complicato da inquadrare nella sua verità oggettiva, in quanto sfugge alla logica causa-effetto declamata dalla teoria dei sistemi applicata alle organizzazioni e arricchisce il puzzle di elementi “latenti”, non chiaramente definibili alla luce dell’umana razionalità.

I vertici stessi non sono immuni da tale inganno della mente. Basti pensare al concetto così noto di domanda latente, celata dietro agli obiettivi aziendali di formazione così dettagliatamente esplicitati ad uso del progettista della formazione. Molto spesso il formatore, a contatto con l’aula, si trova poi a scoprire aspetti sconosciuti persino ai vertici aziendali; aspetti che sono verosimilmente alla base di problemi irrisolti. Talvolta si tratta di elementi della comunicazione informale che non raggiungono chi di dovere. Altre volte sono i singoli responsabili che celano informazioni che sarebbero rilevanti per comprendere al meglio il vissuto aziendale. Ciò avviene inconsciamente, per naturali meccanismi di difesa che impediscono di prendere atto delle vere cause di malfunzionamento del sistema. In altri casi, l’azienda preferisce celare aspetti problematici per una sorta di pudore del tipo “i panni sporchi si lavano in famiglia…”.

Al di là di quale sia l’ordine di motivazione per questa esplicitazione parziale di aspetti aziendali rilevanti ai fini dell’intervento di miglioramento, sarà poi il formatore, se “allenato” a vedere e sentire il “sistema Azienda” costituito da “sistemi Persona”, a scoprire gli elementi latenti inesplorati delle problematiche in atto, le quali vengono di norma imputate, in modo superficiale, a carenze formative o resistenze al cambiamento.

Ciò avverrà grazie alla relazione unica che il “nuovo” formatore crea con la sua platea, attraverso un punto di vista “immacolato” rispetto ad una nuova realtà di cui sa molto poco.

La famosa domanda sulle aspettative dal corso, diventa così un vaso di Pandora in cui viene espresso, in realtà, cosa ci si aspetta che l’azienda faccia per metterli in condizione di lavorare meglio a 360°. Ma ciò può avvenire solo attraverso un sapiente lavoro di “relazione” in grado di stimolare la presa di coscienza di ciò che non viene espresso perché agisce a livello inconsapevole. E ciò può essere fatto solo da un formatore che sia esperto non solo di dinamiche aziendali, ma anche di aspetti umani legati all’Empowerment, nell’ottica della logica secondo cui “…Noi siamo il cambiamento che vogliamo”.

Mi riferisco alle competenze e sensibilità tipiche della consulenza organizzativa e della facilitazione di gruppi che talvolta mancano al formatore tradizionale.

Tutte le informazioni così emerse al di fuori di rapporti gerarchici condizionanti, diventano input preziosissimi per chi abbia la possibilità e la capacità di guardare l’azienda a tutti i livelli ponendosi come figura di mediazione.


Limiti degli interventi organizzativi

Ci sono invece casi in cui la consulenza organizzativa viene catapultata tra le risorse umane, con un approccio da “Superman” che parte da una visione tayloristica del lavoro alla base della famigerata scheda “Tempi e metodi”. Gli esperti sfornano nuove architetture e nuovi processi aziendali, ovvero cambiamenti nel modo di lavorare delle persone senza che le risorse umane siano sufficientemente informate e coinvolte nella creazione di nuove procedure o di nuovi assetti organizzativi.

Tali interventi di miglioramento risultano così “calati dall’alto” in una logica “Top-down” che è di per se stessa foriera di resistenze al cambiamento. A tal punto si interviene con la formazione, tipicamente finalizzata all’implementazione del cambiamento organizzativo progettato, senza intervenire su dinamiche preesistenti: pregiudizi, convinzioni limitanti, emozioni negative. Tutti aspetti “soft” o psicologici che frenano un libero fluire degli eventi che vengono così depauperati dell’esperienza pregressa di cui tali eventi futuri potrebbero essere arricchiti.

Se in natura la forma si adatta alla funzione che deve svolgere, un tale approccio sembra basarsi sul presupposto opposto.

Poiché la funzione è comunque svolta dalle persone che lavorano, chi meglio di loro conosce la modalità di migliorarla?

Il solo limite esistente è rappresentato dalla impossibilità di partecipare al cambiamento con i propri colleghi attraverso una conduzione facilitante e canalizzatrice di potenti energie di per sé inutilizzabili in quanto frammentate.

Raramente i vari attori del sistema conoscono i particolari dei processi interfunzionali di cui sono parte. Ciò per due ordini di motivi: il primo riguarda la natura del lavoro. Se ti occupi di amministrazione non devi essere esperto di magazzino, per dirla in parole povere. Ma se il processo interfunzionale di pagamento delle fatture passa attraverso il magazzino, diventa gioco-forza dare uno sguardo reciproco a aree di competenza diverse ma contigue in termini di processo.

Il secondo ordine di idee riguarda la difficoltà nella diffusione appropriata delle informazioni. La loro parcellizzazione, figlia anche di organizzazioni a silos, determina una “ignoranza” del funzionamento complessivo che induce i vertici ad adottare stili di leadership più direttivi.

Approccio quest’ultimo che sovraccarica i vertici aziendali e, allo stesso tempo, riduce il potenziale espressivo e quindi l’enorme apporto che ciascun individuo potrebbe fornire in un contesto che stimola la partecipazione, il confronto, lo scambio di punti vista e la proattività così arricchita da tale confronto.

Ma come fare per superare questa prospettiva obsoleta?


Empowerment attraverso la partecipazione: contesti e modalità

Si tratterebbe quindi di favorire un “Empowerment” individuale che motiva e consente l’autorealizzazione del singolo a beneficio del sistema azienda e, in ultima analisi, dei manager, che promuovono tale approccio.

La logica della Qualità Totale (TQM) così tanto decantata da oltre 70 anni ha cambiato svariati nomi nel tentativo di essere applicata all’azienda media italiana. Ma di fatto continua a non attecchire proprio per la forma mentis dell’imprenditore e/o del manager italiano medio, che continua a viaggiare sulla logica del “guido io” secondo varie forme più o meno totalizzanti.

Ma se la posta in gioco è la tanto decantata creatività, che di questi tempi è utile a tutti in tutti i settori produttivi, il salto di qualità sembra inevitabile.

Perché la creatività non è più un’esigenza di pubblicitari e artisti in genere, ma di qualsiasi comparto produttivo che ha costantemente bisogno di fare ciò che fa in modo sempre migliore rispetto a come lo faceva il giorno prima e a come lo fanno i concorrenti.

Non è una sfida da poco per la sopravvivenza.

E se c’è chi ama scimmiottare modelli americani tipo Google o Apple con formule fantasiose di rottura degli schemi, basta molto poco per entrare in questa nuova logica: organizzare gruppi di miglioramento continuo interfunzionali in relazione alle necessità che si presentano o a nuove prospettive che si desideri esplorare. Un uscire dalla routine quotidiana per generare nuove soluzioni per problemi vecchi e nuovi e sprigionare vitalità.

Che si chiamino gruppi di progetto, di miglioramento continuo, circoli di qualità, riunioni di coordinamento o quant’altro poco importa. La cosa importante è entrare in questa nuova ottica tanto decantata ma poco perseguita. E questo è un processo culturale su cui siamo molto in ritardo.

L’unica cosa che davvero conta per la riuscita di questo cambiamento epocale è che ci sia una figura esterna, di fiducia della direzione aziendale che guidi e coordini questo percorso in tutti i suoi aspetti: organizzativi, tecnologici e umani.

Un percorso in cui la formazione come risposta ad una domanda esplicita diventa un’opportunità per scovare l’esigenza latente, non esplicitata in quanto non emersa nella consapevolezza dell’organizzazione. E da lì partire per realizzare l’intervento coordinato di facilitazione dei gruppi finalizzato a riportare al centro del discorso il potenziale umano. Un rimodellare processi e strutture in una logica Bottom-Up o “People-driven”.

Solo allora la formazione in itinere diventa quindi uno strumento di supporto a tale processo ed ha più il sapore della sedimentazione di una nuova cultura aziendale emergente, piuttosto che di un apprendimento di saperi o competenze.

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